Prima di raccontarvi le vicende che hanno coinvolto il piccolo tamburino sardo é necessario inquadrare il periodo storico nel quale avvengono i fatti. Dopo la caduta di Napoleone, nel 1815 le potenze vincitrici, Austria, Inghilterra, Prussia e Russia, si riuniscono al Congresso di Vienna al fine di costruire un sistema equilibrato degli stati europei che consenta una pace stabile ed elimini il rischio di nuove precipitazioni rivoluzionarie. In particolare, l'Austria ottiene il controllo delle nostre zone, ovvero il Lombardo - Veneto, il Trentino, Trieste e parte dell'Istria, oltre a numerosi altri territori, mentre il Regno di Sardegna, costituito da Piemonte, Liguria e Sardegna rimane ai Savoia. E' questa la situazione che troviamo quando, nel 1848, scoppiano i moti rivoluzionari in tutta l'Europa, che sono dovuti a diversi fattori: le difficoltà economiche legate alla grave carestia iniziata nel 1845, l'azione delle classi sociali emergenti (borghesia e proletariato), e i nuovi fermenti culturali prodotti dalla diffusione della stampa, dalla formazione di un'opinione pubblica critica e dall'attivismo degli intellettuali. In particolare in Italia i moti hanno inizio con le cinque giornate di Milano, che sono l'espressione della volontà del popolo che desidera ribellarsi al governo austriaco ed ottenere l'indipendenza. In loro aiuto viene anche il Regno di Sardegna dei Savoia, desideroso di sottrarre il Lombardo - Veneto agli austriaci, e formare così uno stato italiano indipendente. Il successo di Milano fa sì che gli austriaci, comandati da Radetzky, siano costretti a ritirarsi nel "quadrilatero" formato dalle fortezze di Verona, Legnago, Peschiera e Mantova: ed è qui che il nostro tamburino entra in scena; Custoza, infatti, sarà teatro di uno degli scontri tra austriaci e piemontesi per il dominio della zona, e il piccolo tamburino dell'esercito sabaudo vi verrà suo malgrado coinvolto. Ma ora è giunto il momento di raccontarvi la sua storia


Oggi è il 24 luglio 1848, e ci troviamo qui a Custoza, nelle verdi colline della provincia di Verona. Il protagonista della vicenda è un tamburino sardo, un ragazzo di poco più di quattordici anni, piccolo, dal viso bruno olivastro e con due occhietti neri e profondi. Egli si trova assieme ad una sessantina di soldati di un reggimento di fanteria dell'esercito piemontese, mandati su un'altura di Custoza ad occupare una casa abbandonata, quando improvvisamente vengono assaliti da due compagnie di soldati austriaci che li costringono a trovare rifugio nella casa stessa. Sbarrate precipitosamente le porte, i nostri uomini si dirigono verso le finestre imbracciando i fucili, dando così inizio ad una lunga ed estenuante battaglia che provoca numerosi morti su entrambi i fronti. Vistosi in grave difficoltà, il capitano del nostro reggimento, un vecchio alto, secco e austero, con i capelli e i baffi bianchi, chiama in disparte il piccolo tamburino, facendogli cenno di seguirlo al piano superiore: nella nuda soffitta il capitano sta scrivendo con una matita sopra un foglio; lo ripiega, e fissando negli occhi il ragazzo gli comunica che sta per affidargli un'importante missione: a Villafranca, appena scesa la collina, sono appostati i carabinieri italiani: il ragazzo ha l'ordine di raggiungerli e consegna re il messaggio al primo ufficiale che trova sul suo cammino. E così è. Si cala con una corda dalla finestra che si trova sul retro della casa, e comincia a correre il più velocemente possibile; nel frattempo, il capitano, con lo sguardo, segue tutti i suoi movimenti; gli austriaci si accorgono di lui ed iniziano a far fuoco su quella piccola figura che fugge verso i campi: viene colpito ma si rialza, riprende la corsa ma zoppica, rallenta per poi ricominciare a correre ancora più veloce, finché non scompare dietro una siepe e il capitano lo perde di vista. Al pian terreno, intanto, il numero dei morti va aumentando, ma egli non ha alcuna intenzione di arrendersi.

Il tempo passa, e tutti ormai stanno perdendo ogni speranza quando, all'improvviso, in mezzo all'enorme polverone, scorgono i berretti a due punte dei carabinieri: i rinforzi sono finalmente giunti. Il piccolo tamburino ce l'ha fatta. La giornata termina con la vittoria dei nostri, ma due giorni dopo gli italiani sono costretti a ritirarsi sul Mincio, a causa dell'elevato numero di soldati austriaci presenti. Il capitano, benché ferito, una volta giunto a Goito desidera sincerarsi delle condizioni di salute di un suo luogotenente, anch'egli ferito e trasportato da un'ambulanza in un ospedale da campo: gli viene indicata una chiesa e una volta giuntovi si guarda attorno cercando con lo sguardo il suo ufficiale in mezzo a tutti quegli uomini adagiati sui materassi posti sul pavimento della chiesa. E' in quel momento che si sente chiamare da una voce fioca: è il piccolo tamburino, disteso sopra un letto a cavalletti, coperto fino al petto da una tenda da finestra, pallido e smagrito, che inizia il racconto della sua impresa, tra mille difficoltà e sotto il fuoco nemico, con l'unico pensiero di assolvere all'incarico che gli era stato affidato: l'uomo, vedendo il ragazzo così debole è indotto a pensare che abbia perso molto sangue, ma distoglie inorridito lo sguardo quando vede che al giovane è stata amputata una gamba, e il troncone rimasto è fasciato da panni insanguinati. Giunge in quell'attimo il medico che, dolente, comunica al capitano come la gamba si sarebbe potuta salvare, se non fosse stata sforzata in modo così assurdo. E' così che l'uomo, quel rozzo soldato che non aveva mai pronunciato una parola mite verso un suo inferiore, alza la mano alla fronte e dice: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe ". Poi si getta con le braccia aperte sul tamburino, e lo bacia tre volte sul cuore.